Golosaria 2013, se l'aspettativa non incontra l'impressione
Il gusto italiano e l'alto artigianato enogastronomico si annunciavano come protagonisti assoluti di Golosaria 2013 (Milano, dal 16 al 18 novembre scorso). All'Ipertrendy Superstudio, location ottimale per la kermesse, la risposta è di quelle da grande partecipazione, anche se + Food e - Wine.
Se consideriamo che Milano si presterà ad essere lo scenario prossimo di tutto ciò che di bello l'Italia può rappresentare con Expo 2015 e il forte imprinting che a questo importante appuntamento sarà dato dall'agroalimentare e dal mondo e dalla cultura del vino, quest'assenza si fa sentire. E non poco.
Il vino infatti, nell'attuale realtà imprenditoriale italiana, resta uno dei pochi- se non l'unico settore produttivo- che registra trend positivi di crescita, con la sua costante e continua apertura all'internazionalizzazione, all'innovazione e alla ricerca. Sorprendono quindi certe piccole disattenzioni dell'evento milanese che hanno sfavorito nettamente l'area del wine. Piccole negligenze che certamente non sarebbero sfuggite, però, all'attento potenziale buyer di turno.
Secondo il nostro modesto parere, la prima disattenzione fra tutte è ricaduta sulla scelta del bicchiere utilizzato per le degustazioni, chic però non altrettanto cheap, che seppur apprezzabile dal punto di vista estetico lo era molto meno dal punto di vista funzionale; e seppur prestabile alla degustazione dei vini rossi era inadeguato per l'analisi olfattiva e visiva della degustazione delle bollicine dove valutarne e apprezzarne intensità, complessità e perlage era del tutto impossibile.
Forse si poteva tentare di coniugare il bello con il funzionale secondo la lezione del grande Bruno Munari che ricordava che "non ci deve essere un arte staccata dalla vita: cose belle da guardare e cose brutte da usare.
Se quello che usiamo ogni giorno è fatto con arte non avremo niente da nascondere".
Ciò nonostante anche il barlume di entusiasmo suscitato in noi dal fatto di scoprire tra le fila dei produttori del wine, un ambasciatore dell'eleganza delle bollicine come la TRENTODOC si è presto affievolito.
L'azienda trentina che è , che è un mo(n)do diverso di fare vino, impeccabile nel trasmettere in chi lo beve il senso di identità e creatività, ha omesso di portare con sé quell'ardore della gente di montagna, il suo slogan.
Ci sarebbe piaciuto entrare in questo mondo accompagnati da griot in grado di narrare e trasferire al degustatore occasionale la cultura, la storia, le emozioni, il terroir del Trentino. E invece tutta questa narrazione è stata messa da parte per rinchiudersi in un asettico format da brochure che riesce solo a rammentare matematicamente le percentuali d'uvaggio di ogni singola bottiglia.
Noi di Che guay siamo dispiaciuti ma fiduciosi perché consapevoli del forte senso del territorio che lega la TRENTODOC e che ha fatto di essa una delle più grandi realtà del panorama vitivinicolo del panorama italiano.
Perché un ente che ha fatto del cooperativismo una virtù, non può dimenticare che solo la testimonianza e la narrazione della gente del proprio luogo di elaborazione è indispensabile a non perdersi nel mondo del vino, e a sapersi far riconoscere in chi lo beve.
E' importante essere presente nel mondo del vino, ma lo è ancora di più puntare sull'importanza della creatività e della narrazione come valore. Perché la propagazione delle emozioni e dei significati produce oggi valore come e più della elaborazione dei prodotti. Tutto questo non è facile ma nemmeno impossibile.
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